una CITTA', una REPUBBLICA, un IMPERO storia di Venezia (tratta dai testi di Alvise Zorzi e Andrea Da Mosto) ***
“Un tempo Venezia era un luogo deserto, disabitato e palustre ...”
Tradizione e leggenda (in questo caso l'interpretazione è dell'imperatore di Bisanzio, Costantino Porfirogenito) circondano la nascita di Venezia di un mito che ricorda quasi la narrazione biblica delle origini del mondo: dal deserto paludoso allo splendore di una grande città a cavalcioni tra Oriente e Occidente. Tradizione e leggenda attribuiscono la nascita della comunità lagunare, dalla quale è nata Venezia, alle invasioni barbariche e, soprattutto, alle scorrerie degli Unni di Attila, “il flagello di Dio”, per sfuggire alle quali gli abitanti delle numerose città romane dell'entroterra si sarebbero rifugiati in quegli isolotti, tra quei laghi e quelle canalette, portando con sé le reliquie dei santi ed i pochi averi sottratti alla furia degli invasori. In realtà, le lagune che vanno dall'Isonzo al Po, non sono mai state certamente il deserto totale di cui parlano il Porfirogenito e tanti altri cronisti. Grado, vicinissima alla metropoli di Aquileia che era stata capitale dell'impero romano, era una cittadina fortificata con tanto di installazioni portuali; c'era una colonia romana a Chioggia e, senza dubbio, un abitato romano, sia pure modesto, si trovava anche a Torcello. Per non parlare di Altino, città importante, che sorgeva proprio sull'orlo della laguna. Quanto ad Attila, “flagellum Dei”, anche se è certo che devastò Altino, non è a lui che vanno le colpe (o i meriti) di aver popolato intensivamente le lagune. E nemmeno ad Alarico e ai suoi Goti, all'epoca dei quali una famosa leggenda medioevale fissa la data di nascita della Venezia attuale (25 marzo dell'anno 421 d.c.). Il trasferimento degli abitanti delle città romano-venete dell'entroterra (Padova, Concordia, Altino, Oderzo, ecc.) non si verificò tutto in una volta, anche se è probabile che le loro scorrerie avessero consigliato chi poteva permetterselo a traslocare rapidamente là dove né goti né unni potevano arrivare. La vera grande occasione che mise in moto una migrazione destinata a durare, fu certamente l'arrivo di un popolo germanico particolarmente aggressivo e rozzo: i longobardi, che, a differenza di goti e unni, erano venuti in Italia con la ferma intenzione di restare. Così, attraverso lunghi anni, se non secoli, di violenza e guerriglia, con i nuovi arrivati, da una parte, e dall'altra il mondo romano superstite, rappresentato dalla autorità bizantina (l'impero romano di Occidente si era sfasciato e l'unico imperatore romano rimaneva quello d'Oriente con sede a Bisanzio), persone e istituzioni si trasferirono nelle sedi lagunari, poco distanti dalla terraferma, ma protette dalla distesa delle acqua. Accanto a Grado, divenuta capitale religiosa, e a Torcello, diventata “un grande emporio”, nascono nuove città, come Eraclea (o Cittanova), nel fondo di una laguna oggi scomparsa, come Metamauco (o Malamocco), al margine di quello che è oggi il Lido. Nel 639-640 viene fondata la cattedrale di Torcello ed una lapide, ivi murata, cita l'autorità dell'esarca di Ravenna, massimo rappresentante dell'imperatore stesso in Italia. I rifugiati hanno dunque compiuto una precisa scelta politica: al nuovo regno longobardo hanno preferito l'antico ordinamento romano, che si incarna in Bisanzio. Hanno voluto, insomma, rimanere fedeli all'antica tradizione romano-veneta, che affonda radici antichissime nell'entroterra. La storiografia veneziana, assertrice della indipendenza originaria da Bisanzio, fissa al 697 l'elezione del primo doge (duca): Paoluccio Anafesto o, meglio, Oaulicius. Egli venne nominato dall'assemblea generale dei venetici, riunitasi in Eraclea per mettere fine agli interni dissidi che li agitavano e che erano determinati dal sistema amministrativo fondato su un gran numero di capi locali, detti tribuni, e per meglio difendersi dai molesti vicini che erano i Longobardi. Non è da meravigliarsi che i venetici abbiano potuto farlo, perchè, pur riconoscendo l'alto dominio dell'Impero d'Oriente, è certo che hanno sempre goduto della più larga autonomia, specialmente a causa della particolare ed appartata situazione del loro territorio lagunare ed insulare. Del resto non facevano che conformarsi ai maggiori centri dell'Italia dominata dai bizantini, che erano retti da capi locali elettivi chiamati duchi.
L'ALBA DELLA SERENISSIMA In realtà, poichè la cronologia del primo periodo della storia veneziana presenta molte incertezze, quando ciò sia successo non è ben sicuro ma, attenendomi ai calcoli fatti da Andrea Dandolo, i quali combinano fra loro, mi sembra di poter assegnare questo evento proprio all'anno 697. L'eletto era un eminente personaggio di Eraclea, peritissimum et iillustrem virum, come lo chiama il diacono Giovanni. Del suo ventennale dogado i cronisti annotano solo che avrebbe regolato i confini di Eraclea col Re dei Longobardi Liutprando e che avrebbe avuto una contesa col patriarca di Grado. Morì nel 717, non si sa bene se di morte naturale o violenta, come afferma un cronista, e venne sepolto in Eraclea. Secondo il racconto, alcuni maggiorenti di Malamocco e di Equilio si sarebbero rivoltati contro di lui e, dopo aver preso e incendiato Eraclea, lo avrebbero ucciso col figlio e con tutti i parenti, escluso un chierico che avrebbe continuato la sua discendenza generando due figli. Cronisti e storici posteriori gli hanno affibiato il cognome di Anafesto, cognome primitivo, secondo la tradizione, della famiglia Falier, ma tutto questo manca di certezza storica. Morto Paoluccio i venetici, riunitisi nuovamente in assemblea, elessero duca l'eracleense Marcello, che il Dandolo dichiarava virum satis utilem. Egli, molto probabilmente, si identifica col maestro dei militi Marcello, che firmò, assieme a Paoluccio, il trattato con Liutprando. Anche a Marcello fu aggiunto, più tardi, il cognome di Tegagliano e gli venne attribuita l'appartenenza alle famiglie dei Fonicalli o dei Marcello. Di lui ci risulta che si intromise in un incidente sorto fra i patriarchi di Aquileia e di Grado, sostenendo quest'ultimo a cui venne data ragione dal Papa Gregorio II. Morì di morte naturale ad Eraclea, dove fu sepolto (726). Roberto Cessi sostiene che questi due dogi non sarebbero, come tali, mai esistiti, e ritiene di poter identificare il primo con l'esarca Paolo di Ravenna, ed il secondo con il maestro dei militi Marcello reggente l'Istria e la Venezia marittima. Pur ammettendo che l'ipotesi possa avere un certo fondamento, non sembra possibile escludere completamente l'esplicita testimonianza offerta dai più antichi cronisti veneziani che devono aver avuto per fonti della loro narrazione atti pubblici e privati e memorie di vario genere a noi non pervenute. Morto Marcello, i venetici, riunitisi nuovamente in assemblea, nominarono duca per acclamazione Orso, nobilissimo cittadino eracleense. Comunemente è ammesso che, durante il suo dogado, il re longobardo Liutprando abbia invasa la Pentapoli obbligando l'esarca Paolo a fuggire da Ravenna ed a salvarsi nelle lagune venete. In seguito i venetici, capitanati da Orso, avrebbero allestito una armata navale cacciando gli invasori e rimettendo in sede l'esarca. Per questa impresa sarebbe stato fregiato dall'Imperatore del titolo onorifico di “Ipato” o console, che i tardi cronisti e genealogisti hanno aggiunto come cognome di famiglia facendo derivare dai suoi discendenti le famiglie Orseolo, Dandolo e Bragadin. Nel decennio in cui resse il ducato, osserva il Dandolo, decus patriae inclitis actibus plurimim auxit, con ciò attirandosi tanto odio da parte dei venetici che finirono con l'ucciderlo acri livore, come pittorescamente si esprime il diacono Giovanni, e con il mandare in esilio il figlio Diodato. Complici ed ispiratori del fatto devono essere stati i bizantini, per avere egli, a quanto sembra, cospirato infine contro di loro insieme al re longobardo Liutprando. La sua tragica scomparsa ha ispirato la fantasia di Giovanni Pindemonte il quale, in una tragedia recitata a Venezia l'11 settembre 1797, ce lo fa apparire come un tiranno ucciso dal furore popolare. E sotto simile aspetto lo ha anche rappresentato, in una breve tragedia lirica del 1854, Antonio Giuseppe Spinelli. Dopo la sua fine (737) i cronisti non parlano più di assemblee popolari ed è probabile che i 5 maestri dei militi che seguirono (Leone, Felice Carnicola, Orso Diodato, Gioviano e Giovanni Fabriciaco), con potere limitato ad un anno, siano stati creature del governo esarcale di Ravenna. Dopo di ciò, sotto la guida del nuovo duca Diodato, la sede del governo venne trasferita da Eraclea nell'isola di Malamocco, alquanto discosta da quella attuale e distrutta da un terremoto nel 1105. Finisce così la breve stagione di Eraclea capitale delle venezie ed inizia il mito di Venetiae caput mundi. IL DOGE Alla testa della Repubblica, anzi, della Serenissima Repubblica, come verrà chiamata negli ultimi secoli, circondato da tutte le forme esteriori della sovranità, il doge incarna la maestà dello Stato: indossa vesti sfarzose, manti di broccato e di ermellino, di lamé d'oro e d'argento o di panno di seta scarlatta, a seconda della stagione e delle circostanze. In capo ha la corona dogale: il corno. Ce n'è un esemplare preziosissimo, la zogia, o gioiello per antonomasia, col quale viene incoronato in cima alla scala dei Giganti del Palazzo Ducale, ma il doge lo porta una sola volta all'anno, il giorno di Pasqua, quando si reca in visita alla chiesa di S. Zaccaria. Normalmente ne porta una versione meno ricca, il corno d'uso, sopra al camauro, o rensa, una sorta di caratteristica cuffietta di tela di Reims. Quando esce in processione, nelle grandi feste liturgiche del Corpus Domini o della Domenica delle Palme, o nelle innumerevoli “andate” solenni in cui visita questa o quella chiesa, questo o quel monastero, lo precedono e lo seguono le insegne della legalità bizantina: le trombe d'argento, la spada nuda, il cero, la scranna,il cuscino, l'ombrello di damasco, gli otto stendardi di seta col leone di San Marco (due bianchi, due rossi, due viola e due azzurri, simboleggianti rispettivamente la pace, la guerra, la tregua e la lega). La sua immagine, in ginocchio davanti all'evangelista Marco, figura, assieme al suo nome, sulle monete e sull'anello a sigillo che porta in dito. Luigino Paro Associazione Culturale IL CARRO Via Fausta n. 51 30020 – ERACLEA |